Ottimo lavoro per Ridley Scott, che torna a dirigere il suo Gladiatore preferito, l'australiano Russell Crowe. Smessa la corazza e la spada, Crowe s’ingessa dunque nel doppiopetto e diventa Max, broker londinese celebre per il suo cinismo e il suo arrivismo. Ma FTSE e mercato obbligazionario a parte, Max in fondo è un’anima candida: si mette alla prova quando eredita una proprietà in Provenza. L’amato zio Harry (strepitoso Albert Finney, indimenticato Big Fish!), gli lascia casa e vigneto e Max vola nel Luberon a smazzarsi le procedure notarili, deciso a vendere in fretta il tutto e a tornare ai suoi indici di borsa. Invece, trionfo della prevedibilità e dei buoni sentimenti, Max riscopre il suo lato fanciullo, riassapora l’aria aperta, la semplicità del vivere quotidiano e semi-dimentica le grane borsistiche. Scopre l’angolo nascosto di sè, “Le Coin Perdu”, nome del vino-leggenda raro e costoso prodotto in incognito dallo zio. Scopre l’amore vero (con la francesina, manco a dirlo), quello che gli fa dimenticare le centinaia di fanciulle da una botta e via che gli popolavano l’esistenza nella City.
Se prevedibile è il finale e scontatella è la trama(che poi a noi piace così!), meno prevedibile è “come” il tutto si svolge, con scelte di sceneggiatura mirate e intuizioni registiche deliziose. Gridiamo a pieni polmoni “Oscar per la fotografia”, perché è semplicemente eccezionale e se non glielo danno è un delitto; colonna sonora leggera e centrata; dialoghi mai sopra le righe, anche negli scambi di battute al veleno con substrato nazionalista (“Mangiarane” – “Inglese di merda”).
Russell Crowe rimette gli occhiali e l’aria trasandata di “The Insider”, mantenendo quello sguardo tremendamente sexy che l’ha reso immortale ne “Il Gladiatore”: bravo, bravissimo nel ruolo di Max, ma lontano anni luce dallo stereotipo dell’inglese. Parliamoci chiaro, la faccia bastarda del trader londinese non s’accozza: sarà il suo curriculum, sarà che il ricordo di Massimo Decimo Meridio è ancora troppo forte, ma la faccia di Max Skinner forse era più adatta ai due Colin (Firth e Farrell) o all’eterna carogna cinica Hugh Grant. O anche Jude Law, ma qui sconfiniamo nel nazionalismo e, in fondo, di “se” e di “ma” son piene le fosse. Sarebbe curioso sentire l'accento, ossia se Crowe riesce a lasciare in Australia quello suo originario e a districarsi con quello British.
A ogni modo, “Un’ottima annata” è un bel film, senza troppe pretese, da sorseggiare e gustare con dovizia. Quasi di...vino.
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